Una piccola riflessione sulla lingua italiana.
Capisco il valore aggiunto di chiamare mouse un dispositivo di plastica dotato di rotella o laser che consente al cursore di muoversi agevolmente su uno schermo.
Sul fatto che non esista un termine italiano corrispondente siamo d’accordo tutti.
Non mi metterò certo a fare il francese denominandolo “TOPO” né pretendo che nei manuali di informatica vengano tradotte tutte le terminologie e designazioni con delle eleganti perifrasi italiane o con dei termini corrispondenti.
Come faceva Cicerone con la filosofia greca in latino.
Però, spiegatemi. forse sono io ad avere un’età troppo avanzata e a non comprendere le sottigliezze.
Ma spiegatemi: da quando l’agenzia di viaggi lavora nel settore “travel” e il kebabbaro in quello “food”?
E da quando per definire una mia abilità o competenza devo dire “skill”?
Su quest’ultima m’impegnerei anche a lasciar correre, se non fosse che un numero spropositato di persone decidono di declinarla, aggiungendo il terribile e famigerato “s” finale.
Ora, ho assistito personalmente alla transizione dell’esterofilia italiana dai termini francesi a quelli inglesi. Magari parlare metà in francese non era proprio una caratteristica di quando ero piccolo, però sono sempre stato attendi lettore e conosco il fenomeno.
Conosco anche la fascinazione che gli italiani conservano per tutto ciò che è altro, estero, sconosciuto ed esotico.
Solo che in questo caso stiamo assistendo a una vera e propria sostituzione terminologica inutile, affaticante e persino di cattivo gusto.
Non c’è altro modo di dire ikebana? Chiamiamolo così.
Una persona blasé è disincantata, ma vogliamo dimostrare che abbiamo una cultura letteraria e manteniamo il francesismo? Va bene.
La Weltanshauung rimarrà sempre il modo migliore e definire sociologicamente la visione del mondo.
Però, per favore, non ditemi “bias” invece di pregiudizio, o “democracy” invece di democrazia.
E i media si pronunciano “mEdia”. Non “mìdia”. Va bene l’americanofilia, ma non esageriamo con le attribuzioni.
Non desiderare la parola d’altri.