Anthony Hopkins aveva già vinto l’oscar come miglior attore per “il silenzio degli innocenti” nel lontano 1991, a fianco di una altrettanto dotata Jodie Foster.
In diretta dal “suo” Galles, l’attore si trova in casa a godere una vita densa di riconoscimenti professionali, dell’affetto degli ex e attuali colleghi. Ci ha regalato pellicole di incredibile forza, come “Il caso Thomas Crawford”, che sebbene non sia tra i suoi più famosi, trovo sia una tra le più sottovalutate prove di questo polimorfo artista.
A questa premiazione degli Oscar 2021 sorride, ringrazia e si dice “sorpreso” per la premiazione. Non è infatti decisamente il caso più comune, quello di un film introspettivo su una questione così spinosamente quotidiana, in cui vince l’attore protagonista pluriottantenne.
Non è comune, ma è, in fondo, spia dei tempi.
La premiazione introspettiva e il suo significato
Il film parla di una donna (Olivia Coleman), che ogni tanto ha dialoghi e scambi con l’anziano padre.
A chi non l’ha visto consiglio di non andare oltre nella lettura, perché come spesso accade il thriller psicologico (genere secondo me predominante) e la sua risoluzione servono a narrare quello che sta sotto, la fatica del vivere quotidiano e delle interazioni per una persona affetta da demenza.
Il personaggio di Hopkins lentamente degenera in un turbinio di incomprensioni, piccole prepotenze e angherie quotidiane verso la figlia, sottomissioni a personaggi giovani e autosufficienti che orbitano attorno a lui, gli nascondono gli effetti personali e gli impediscono di vivere.
Persecuzione sistematica o naturale disgregazione dovuta alla senilità?
Probabilmente, questo film ci insegna che non è così facile distinguerle. Il punto di vista di chi ci sta dentro è molto spesso trascurato dai grandi film sulla demenza senile, a favore di quello di “chi resta”.
La performance di Olivia Colman
Olivia Colman è qui una degnissima controparte dell’immenso Hopkins. Non ne sbaglia una, da quella sua piccola comparsa in “The Lobster” di Yorgos Lanthimos nei panni della eccentrica manager dell’hotel.
Io l’ho apprezzata particolarmente nell’altrettanto disturbante “La favorita”, ma anche in ruoli ben più umani che le danno nelle serie tv, prevalentemente inglesi.
In conclusione: la valorizzazione di questo film ha sì dell’incredibile, ma è in fondo un segno delle cose che ci piaccino e a cui ci stringiamo nei momenti di difficoltà, che questa pandemia ha enfatizato e esteso anche a chi non sperimentava ogni giorno, come il personaggio della Colman, piccole tragedie quotidiane.
Per una volta, non è la malattia di un giovane o la passione d’amore a trionfare.