Leggevo un articolo che raccoglieva le spiagge che hanno solleticato le suggestioni di alcuni pittori di fama internazionale.
Le spiagge amene
Questo è l’articolo, che si riferisce esplicitamente ai “grandi pittori del passato”. Da Dalì a Matisse, all’olandese Hendrik Willem Mesdag, dal tratto squisito. Poi l’impressionista Frank Weston Benson, che ci regala una visione inedita della costa del New Hampshire: la cittadina portuale di Portsmouth “con i suoi viali alberati fiancheggiati da edifici coloniali” (cito dall’articolo); poi Exeter che ospita l’American independence museum, famoso perché contiene una Dichiarazione d’Indipendenza.
Carlo Carrà
Ma quello che mi ha lasciato un sapore nostalgico è il riferimento a Carlo Carrà, pittore futurista che a qualcuno piace designare come realista mistico, una corrente degli anni ’30.
Ricordo che una trentina d’anni fa incontrai in treno un omino diafano, avrà avuto almeno 80 anni. Si muoveva a fatica nel vagone e trasportava (so che sembra una cartolina, ma è vero) una piccola valigetta di cartone. Entra nel mio scompartimento, appoggia la valigia, si comporta come se volesse fortemente fare due chiacchiere, per trascorrere il tempo di un viaggio che avrebbe dovuto essere comunque non troppo lungo.
Fatto sta che la conversazione ci ha portati a parlare di pittura, e l’ominio qui ha corrugato le sopracciglia bianche, che mi ricordo foltissime. Ha assunto un tono da aedo e cominciato a parlare della sua conoscenza personale con Carlo Carrà.
Un assistente o un ispiratore
Il racconto era condito di dettagli realistici, e io me lo sono bevuto con avidità. Aveva parlato peraltro anche dell’ultima mostra fatta da Carrà in vita, al Palazzo Reale di Milano. Mi ha parlato della sua infanzia misera, ai confini perenni con la fame. Di come arrotolava i polsi attorno ai pennelli, dopo averli lavati, come un imbianchino.
“Un proletario, deve capire – ha concluso vedendomi all’atto di scendere – con l’attaccamento materico ai colori delle tele e delle persone. Un vero artista, che dipingeva, perché?”.
Io scendevo, benché dispiaciuto, e ricordo l’urgenza di scendere suggellata dal sentenzioso dell’omino: “Perché si deve”.